A Roma, fin dall’epoca tardo imperiale, veniva tramandata una leggenda ambientata nel vicino Lago di Nemi, secondo cui i fondali vulcanici ospitassero due gigantesche navi ed immensi tesori. La leggenda sopravvisse nei secoli e numerosi furono gli eventi inspiegabili che alimentarono il mistero: alcuni pescatori affermavano che spesso le reti si impigliavano in alcuni punti del lago mentre altri facevano mostra e collezione di quei reperti sollevati fortunosamente col pescato.
Fin dal 1400 molti riconobbero l’esistenza di un tesoro antico e tentarono di portarlo in superficie con i mezzi dell’epoca. Nel 1446 il Cardinale Prospero Colonna incaricò Leon Battista Alberti di recuperare i tesori, il quale operò con una zattera ed un gruppo di nuotatori esperti. Un secolo dopo ci fu il tentativo di Francesco De Marchi che fornì una descrizione degli scafi visti attraverso i vetri della sua campana subacquea; l’architetto ispirò il Cavalier Annesio Fusconi nel 1820: utilizzando una campana di Halley fu in grado di individuare e recuperare mosaici, marmi, tubi di terracotta e molto altro.
Bisogna aspettare il 1895 per un interesse nazionale concreto, quando cioè il collezionista Eliseo Borghi, durante una campagna di scavi, si appropria di numerosi reperti di valore approfittando delle autorizzazioni concessegli: il Ministro della Pubblica Istruzione ed il Ministro della Marina si coordinano per un recupero definitivo volto alla salvaguardia dei reperti.
Il recupero avvenne durante il Governo fascista e durò dal 1928 al 1932. Più società italiane fornirono strumenti e uomini senza chiedere compenso, in particolare va menzionata l’azienda Riva Calzoni di Milano e l’Ing. Guido Ucelli insignito del titolo “di Nemi” da Re Vittorio Emanuele per aver reso disponibili le idrovore che abbassarono il livello del lago di 22 metri: le acque aspirate vennero defluite in un emissario artificiale di epoca romana appositamente restaurato.
Nel gennaio 1930 entrambe le navi vennero emerse e conservate nel Museo delle Navi romane costruito proprio per ospitarle ed aperto al pubblico il 21 aprile 1940: il primo scafo era lungo 71 metri e largo 20; il secondo invece misurava in lunghezza 75 metri e 29 in larghezza.
Vennero inoltre conservati moltissimi reperti delle sovrastrutture e dei loro interni, così come strumenti nautici, un’ancora e apparecchi idraulici di bordo; oggetti che fornirono un singolare impulso per lo studio della tecnologia navale dell’epoca. Di tanta eredità custodita attraverso i secoli dal lago, ci resta oggi solo ciò che venne trasportato e conservato a Roma. Nella notte tra il 31 maggio e il 1° giugno 1944, nei pressi del museo avvenne un bombardamento alleato e nella struttura divampò un incendio che distrusse interamente gli scafi. Dallo studio delle macerie e dalle testimonianze dei custodi, si definì l’incendio come doloso: i tedeschi in fuga distrussero volontariamente il patrimonio archeologico ed incendiarono le navi.
Secondo gli storici la prima nave ospitava un santuario alla dea Diana e la seconda serviva all’imperatore Caligola come sfarzoso palazzo galleggiante. Per alcuni le navi di Caligola erano simbolo ed orgoglio di supremazia navale, per altri le navi vennero invece costruite per essere impiegate durante funzioni religiose e festività.
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